Il settore Oil&Gas fra le incertezze propagate dal Covid-19, alle prese con rischi reputazionali e alla ricerca di equilibri sostenibili verso la transizione energetica
In questi ultimi mesi sul Covid-19 è stato detto e scritto tutto e il contrario di tutto. La crisi sanitaria non si è ancora conclusa, eppure la conseguente crisi economica ci sta già mettendo a dura prova. E – come ogni crisi che si rispetti – mette in luce le debolezze e le fragilità più marcate del sistema a livello globale.
Il crollo della domanda di petrolio dovuto alla pandemia di Covid-19, unito a una selvaggia guerra dei prezzi, ha messo in ginocchio l’industria dei combustibili fossili. Secondo gli analisti il settore è di fronte alla sfida più difficile in un secolo di storia, una sfida che porterà cambiamenti duraturi. Molti parlano di uno scenario “infernale” o comunque “senza precedenti”.
Il settore petrolifero è innegabilmente in difficoltà. Il prezzo del petrolio ha raggiunto il livello più basso degli ultimi vent’anni. Da gennaio il valore delle azioni di alcune aziende petrolifere si è dimezzato, salvo qualche recupero verificatosi nella c.d. “fase due” della pandemia. Almeno due terzi degli investimenti annuali – 130 miliardi di dollari – sono andati in fumo, cancellando decine di migliaia di posti di lavoro. Abbiamo visto un fenomeno ritenuto impensabile solo pochi mesi addietro: in alcuni mercati i prezzi sono addirittura scesi sotto lo zero, con alcuni venditori disposti a pagare pur di liberarsi del petrolio nei momenti in cui in tutto il mondo le strutture di stoccaggio erano quasi piene.
Ma per una manciata di persone, manager di spicco di aziende del settore oil & gas, le cose non stanno andando poi così male…
Mentre per le loro aziende lo spettro del fallimento appare più vicino, i dirigenti di produttori petroliferi e del gas si sono concessi decine di milioni di euro (o dollari) in bonus. Ebbene, questa volta, anche per un settore come l’Oil & Gas, dove l’eccesso è di casa, gli investitori pare ne abbiano avuto abbastanza.
Diversi grandi gruppi petroliferi, vittime del settore a seguito dello schianto, hanno seguito un medesimo copione, pagando decine di milioni di dollari (o euro) in bonus a top management per poi (addirittura pochi giorni dopo), chiedere sussidi e protezione statale.
Alcuni sono andati oltre, modificando la struttura retributiva – ad esempio in modo che l’amministratore delegato abbia diritto ad un pacchetto di fine rapporto di multipli del suo stipendio (e bonus) in caso di licenziamento senza giusta causa.
A onor del vero le compagnie petrolifere non sono le uniche a pagare ingenti bonus ai dirigenti mentre si avvicinano al fallimento: i giganti americani JCPenney e Hertz, uno dei grandi magazzini, l’altro degli autonoleggi, hanno fatto altrettanto. L’argomento è che per poter sostenere una ristrutturazione come quella post Covid-19 è necessario mantenere in azienda la conoscenza, le risorse umane più valide e preparate, che sappiano gestire la ripresa; e che senza cospicui bonus il top management potrebbe andarsene.
Già… eppure ai dipendenti si parla di senso di appartenenza, di cultura aziendale, di missione comune… vuoi vedere che ci sono due pesi e due misure… e che per il top management questi sono concetti che vanno filtrati e ponderati attraverso il conto in banca??
In realtà i grandi investitori istituzionali denunciano questi fenomeni nel settore energetico come sintomatici di questioni di governance di più ampio respiro, dove la situazione in cui i dirigenti accumulano pacchetti di retribuzioni crescenti nonostante l’andamento mediocre dei corsi azionari sia una tendenza in atto da diversi anni. Più concretamente, Il management viene pagato profumatamente quando il prezzo delle azioni sale, quando il prezzo delle azioni scende e quando la società fallisce.
Normalmente i bonus vengono concessi quando si sovraperformano gli obiettivi concordati, no? Ma se una società valuta le proprie performances su base relativa rispetto ai concorrenti del settore, in un settore dove i rendimenti scendono complessivamente, è più facile far risultare positivo un risultato che in termini assoluti sarebbe mediocre, se non negativo. Basta essere bravi con i pesi e le misure.
Il settore ha registrato le peggiori performance dello S&P 500 negli ultimi periodi di uno, tre, cinque e dieci anni, mentre i gestori attivi di fondi si sono sempre più allontanati. E anni di sottoperformance hanno già spaventato molti investitori: l’energia è passata da una quota del 14% della capitalizzazione di mercato dello S&P 500 al 5% negli ultimi dieci anni interrompendo di fatto “l’epoca d’oro dei dividendi” in cui le azioni petrolifere erano un punto fermo nei portafogli d’investimento. (https://www.spglobal.com/marketintelligence/en/news-insights/trending/bsaz9hsg2ajy8pz8dd3y8q2).
Se al rischio ambientale caratteristico del settore aggiungiamo la consapevolezza della pressione politica a livello globale per ridurre le emissioni, oltre alla considerazione che oggi i tassi di rendimento dei progetti legati al petrolio sono in linea con quelli del solare e dell’eolico, diventa evidente una progressiva perdita di attrattiva del settore, con conseguente aumento del costo del denaro per l’industria petrolifera.
Parliamoci chiaro, l’oil & gas non è morto e l’industria ha ancora una funzione eccezionalmente importante a sostegno delle economie nazionali e della nostra vita di tutti i giorni. Ma, proprio considerato il peso del settore nell’attuale fase di transizione energetica, il rischio reputazionale è talmente alto che può diventare un game changer, quindi ignorarlo sarebbe un errore potenzialmente troppo costoso.
Segno che nelle sale riunioni debba crescere la consapevolezza dell’indispensabilità di una correlazione diretta fra i compensi dei dirigenti e i risultati della società in termini assoluti, nel contesto del rischio di sostenibilità del business a medio e lungo termine e dell’impatto dell’attività dell’azienda su tutti gli stakeholders.
Bisogna fare attenzione a pesi e misure…