Parlando di corporate governance, negli ultimi 20 anni, le aziende hanno attraversato profondi cambiamenti sociali e tecnologici, adottando nuovi strumenti, adattandosi alle nuove normative e cercando di creare una cultura in cui tutti possano riconoscersi ed evolversi.
In questo contesto si inquadrano gli sforzi di costituire consigli di amministrazione più diversificati e più inclusivi. Inizialmente magari spuntando le caselle sesso, età ed etnia e successivamente cercando persone che abbiano un aspetto diverso. Fra i risultati – più facili da vedere per le società quotate, ancor di più se europee – una presenza femminile sempre più marcata (un terzo dei posti nei CdA delle società del FTSE 100 è oggi occupato da donne). Ma è davvero sufficiente per un miglior funzionamento organico del board? Non sarà che, attingendo alle medesime università, reti professionali e strutture di formazione, abbiamo sì dei board rinnovati, magari diversificati per sesso, età, etc., ma che continuano a rispondere ad un modello di governance superato, ovvero al servizio unicamente degli azionisti?
La diversità e l’inclusione come principi della composizione degli organi amministrativi delle nostre società non è un esercizio fine a sé stesso. È solo una modalità per favorire la rappresentazione nella governance aziendale non solo degli investitori, ma potenzialmente degli interessi di tutti gli stakeholders che vengono impattati dall’attività della società e che la impattano a loro volta. Servono esperienze, competenze e background diversi che portino diversità di pensiero, abilità e prospettive differenti, al fine di migliorare i processi decisionali e renderli compatibili con tutti gli attori in gioco, in un’ottica di sostenibilità e di creazione di valore a lungo termine.
Il tutto con la necessaria trasparenza e responsabilità. Gli stakeholders, pubblici o privati, vogliono vederci chiaro e capire se il CdA ci sta provando sul serio; chi sono effettivamente gli amministratori e cosa li rende idonei a governare; come viene declinata la responsabilità del CdA nel suo funzionamento dinamico fra decisioni, obiettivi, progressi e battute d’arresto.
Dato che la funzione del CdA cambia, si evolve, forse si potrebbe pensare di adeguare anche le modalità di strutturazione dei board. Si potrebbe, ad esempio, allargare temporaneamente il CdA per dar tempo e modo ai nuovi di imparare dai membri uscenti. Oppure gestire la cessazione dalla carica non tanto in funzione del numero di anni, quanto piuttosto valutando l’utilità delle specifiche competenze per elaborare e impostare una strategia sostenibile per l’azienda, e per garantire una supervisione (pro)attiva. Oppure ancora (come già succede in alcune importanti società globali di consulenza) iniziare a guardare non solo i CV ma anche le storie di vita dei potenziali amministratori, superando l’ottica per cui sono cooptati solo se provenienti da business schools di spicco. Può sembrare ardito ma il senior management e i vari comitati di supervisione di McKinsey includono oggi ex chirurghi, scienziati e tecnologi, persone con esperienze di vita diverse, comprese quelle che provengono da contesti meno privilegiati rispetto alle reclute precedenti.
Tale adeguamento dimostra il suo valore soprattutto in tempi di cambiamento. E quale cambiamento più sconvolgente della pandemia di Covid-19, che ha rovesciato la prospettiva per molte organizzazioni! Anche se non si può sapere, ad oggi, da dove verrà la prossima scossa, sarà la diversità di esperienze, abilità, reti e pensiero che favorirà l’adattamento dell’azienda a nuove condizioni di funzionamento. Prendiamolo come un invito a uscire dalla pigrizia mentale che ci induce a pensare che il mondo continuerà sempre a restare quello che conosciamo.
Fonte: Financial Times
3 maggio 2021