Oltre ai suoi ormai famosi paradossi, il commediografo statunitense George Carlin usava dire “In qualsiasi cinico troverai un idealista deluso”. Proviamo per un attimo a mutuare il suo pensiero ed a metterlo in relazione con l’atteggiamento delle imprese rispetto agli argomenti della sostenibilità. È difficile non rispondere cinicamente considerata l’impressionante velocità e la quasi assenza di esitazione con cui le aziende hanno abbracciato la responsabilità ambientale.
Il termine greenwashing esiste dalla fine degli anni ’80, ma l’ultima raffica di comunicati stampa eco-compatibili ispirati a Greta Thunberg ha dato al termine una nuova e potente valenza. Scandali internazionali come quello delle emissioni diesel della Volkswagen sembrano illustrare un’ampia realtà di fondo: le aziende sono felici di sfoggiare le loro presunte credenziali ecologiche mentre cercano di prendersi un po’ gioco del sistema.
Un recente studio dell’Università di Stanford, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Psychological Science, propone un’interpretazione più costruttiva del fenomeno esaminando come le norme comportamentali si modificano nel tempo. Gli autori hanno scoperto che è molto più probabile che i soggetti adeguino il proprio comportamento quando notano un numero significativo di altri che cambiano il loro, anche quando ciò significa sacrificarsi. In altre parole, ci aggrappiamo ai nostri vecchi modi di fare le cose fino a quando sembra che ci sia abbastanza slancio dietro il nuovo modo di agire per giustificare il cambiamento.
Tutto ciò può sembrare evidente, ma i risultati dello studio possono essere applicati al concetto di greenwashing; piuttosto che l’interpretazione cinica dell’evangelismo ambientale aziendale, non dovremmo vederlo come il primo passo per modificare il panorama normativo?
Affinché le persone possano apportare cambiamenti reali, devono essere bombardate da messaggi che le convincono che (anche) gli altri stanno cambiando. Ovviamente a un certo punto questa argomentazione cade – abbiamo bisogno di azioni oltre che di parole – ma sembra che spendiamo un sacco di tempo ed energia per denunciare presunti greenwasher invece di orientare le risorse nel tentativo di affrontare il cambiamento in modo più positivo.
Per dirla in altro modo, sembrerebbe che in molti stiano andando nella giusta direzione quando si tratta di riscaldamento globale; la domanda è: quanta ortodossia chiediamo ai nostri compagni di viaggio, è meglio impiegare la carota o il bastone?
Un percorso potrebbe essere quello di promuovere un ambiente in cui le aziende possano ammettere i loro fallimenti e nel contempo di condividere i loro successi. Gli obiettivi imposti dalla crisi climatica sono impegnativi ed è ragionevole accettare che le aziende potrebbero non riuscire a raggiungere questi obiettivi dai primi tentativi.
Il reporting su tematiche ambientali dovrebbe essere considerato alla stessa stregua della rendicontazione finanziaria e dovrebbe essere soggetta allo stesso livello di monitoraggio e controllo. L’alternativa, in cui continuiamo a lanciare pietre a coloro che osano fallire, guiderà solo il conservatorismo e la recidiva, scoraggiando proprio il tipo di assunzione di rischi e innovazione di cui abbiamo bisogno per passare alla fase successiva nello sviluppo di risposte dell’economia alla crisi climatica.
L’esperienza di UN PRI (I Principi di Investimento Responsabile delle Nazioni Unite) ai quali hanno aderito circa 2000 istituzioni potrebbe risultare eloquente in questa prospettiva. Questa importantissima iniziativa dei grandi investitori, istituita per elevare gli standard ambientali, sociali e di governance nel settore della gestione patrimoniale, ha messo il 10% dei suoi firmatari in una watchlist per non aver raggiunto i propri obiettivi ESG l’anno scorso.
Da allora, è stato riferito che 88 delle 185 società notificate hanno migliorato i propri standard, mentre altri 42 lo faranno entro la fine dell’anno. Tuttavia, 50 società con oltre 1 milione di dollari di masse gestite non sono riuscite a migliorare, e molte di esse rinunceranno all’adesione alla fine del 2020.
I nomi non si conoscono, ma l’idea che alcune grosse società finanziarie non facciano dell’UN PRI il loro faro in tema di ESG dovrebbe far riflettere. I cinici potrebbero indicare questa watchlist come prova che il sistema ha fallito. Ma non è in realtà una prova del funzionamento del sistema, che indica come le bad practice non prosperano e le aspettative stanno diventando più rigorose?
È fondamentale trovare le modalità di inserire misure ambientali proattive nell’operatività quotidiana delle nostre attività. Parte di questo processo è il riconoscimento che, in questa fase ancora relativamente precoce dello sviluppo dell’economia a basse emissioni di carbonio, dobbiamo lavorare pensando che chi non è contro di noi, è con noi.
Fonte: Financial Times